La ragazzina aveva un corpo perfetto. Avrà avuto tredici anni, e quell’aria leggera delle adolescenti che sembrano danzare invece di camminare. La madre, a pochi passi da lei, era indubbiamente una bella donna, ma la ragazzina e la sua sorella piccola – otto o nove anni, forse – erano uno spettacolo, con gambe lunghissime come fenicotteri e grandi sorrisi sotto i capelli biondi, volti che non avrebbero conosciuto una ruga per molti anni ancora. Dovevano essere tedesche o olandesi, perché avevano quella pelle bianca tipica di chi vive di solito sotto un cielo grigio, ma qualche settimana di sole aveva aggiunto un tocco di colore come il pennello di un maestro.
Il vecchio Kostas le guardava. Non si capiva se con occhi da vecchio pedofilo, immaginando chissà quale porcheria, o con occhi da vecchio nonno, ammirando semplicemente la bellezza della gioventù, quella cosa che quando ce l’hai non te ne accorgi, poi da anziano la vedi negli altri e la invidi un po’. Nikos conosceva Kostas da sempre, e tutto considerato propendeva per la seconda ipotesi. Non era un vecchio porco, era semplicemente un vecchio, e vedere tanta bellezza era come guardare il mare al tramonto: faceva bene agli occhi.
Il traghetto che le tedesche aspettavano stava finendo la manovra. Nikos fece un cenno a Dimitris e si avvicinarono al bordo del molo. Le cime furono lanciate con la solita precisione, e loro due passarono i grossi anelli intorno alle bitte per permettere al traghetto di accostare. I motori elettrici cominciarono a tirare, le cime si tesero vibrando come corde di un bouzouki, spruzzando acqua dappertutto, e il traghetto si avvicinò lentamente al molo.
Poi ci furono i soliti dieci minuti di caos, con auto che scendono, auto che salgono, turisti che si imbarcano prima che sia permesso, e altri che si ricordano di scendere solo all’ultimo momento. Finalmente il portellone fu alzato, le cime furono sganciate, e le eliche cominciarono a frullare rumorosamente nell’acqua fangosa, spingendo le ventimila tonnellate del traghetto verso il largo.
Fu allora che Nikos lo vide. Era vicinissimo al molo, e per un attimo sperò di averlo solo immaginato.
“Dimitris! Vieni qua!” urlò. Di solito Dimitris non è uno che va di fretta quando lavora, ma capì dalla voce che c’era un problema serio, e si avvicinò di corsa.
“Guarda” disse Nikos, puntando con il braccio. Era una sagoma nera, coperta da una muta da sub. Un cadavere, difficile sbagliarsi. In pochi secondi il traghetto si allontanò e il vortice delle eliche non fu più in grado di sollevare il corpo dal fondo. I turisti dal ponte di poppa prendevano foto del panorama, ma per fortuna nessuno di loro guardava in basso, vicino alle eliche, e un'altra serata si concludeva tranquillamente al porto di Tinos. Quello era l’ultimo traghetto della giornata, tra poco avrebbero chiuso il lungomare alle auto e i ristorantini si sarebbero riempiti di gente.
“Che facciamo?” Disse Dimitris.
“Andiamo a controllare. È proprio qua davanti, ci mettiamo un attimo. Non voglio andare in capitaneria per farmi sfottere a vita da Palioudakis, se per caso è solo una vecchia muta vuota.”
“Non era una muta vuota, io ho visto una mano. Va bene, andiamo a controllare.”
Nikos e Dimitris erano andati a scuola insieme fin dalle elementari. E fin dalle elementari avevano fatto il bagno, pescato o imparato a guidare una barca nella zona del porto; per loro era come il cortile di casa. Presero in prestito una barchetta a remi ormeggiata lì vicino - forse era quella di Marios Tsakali, ma non erano sicuri, e comunque non si sarebbe lamentato. In pochi colpi di remo furono davanti all’attracco dei traghetti. Il fango alzato dalle eliche si era già posato, e l’acqua era limpida. Sul fondo si intravedeva una sagoma. Dimitris si tolse la maglietta, disse “aspettami qui” e si tuffò.
Non era molto difficile, il corpo era forse a tre metri di profondità, ed era indiscutibilmente un cadavere.
“È un uomo, non galleggia perché ha la cintura con i pesi. Io non lo voglio tirare fuori, andiamo ad avvisare in capitaneria”.
Il capitano Palioudakis era impeccabile come sempre, nel suo completo bianco come il suo ufficio, dove l’aria condizionata avrebbe congelato un pinguino. Appena vide Dimitris e Nikos li apostrofò sgarbato: “Che ci facevate su quella barca in zona di ormeggio? Voi due lavorate per il porto, devo spiegarlo anche a voi che quella zona va lasciata sempre libera?”
“Capitano, è una cosa grave, e volevamo essere sicuri prima di venire qui a disturbare. C’è un cadavere sul fondo. Ha una muta da sub nera e una cintura di pesi che lo tiene giù. Noi l’abbiamo visto solo perché il vortice delle eliche del traghetto lo ha portato in superficie per un attimo, poi si è posato di nuovo sul fondo. Bisogna chiamare qualcuno per recuperarlo.”
“Shit!” fu l'unica reazione di Palioudakis. Lui era fatto così: aveva studiato in Inghilterra, e credeva che il modo migliore per essere sicuro che tutti se ne ricordassero fosse usare qualche parola inglese qua e là, di solito a sproposito. Però, a parte questo, e a parte la sua naturale antipatia e arroganza da piccolo funzionario, era uno che lavorava. In cinque minuti aveva avvertito la polizia, chiamato una ditta che faceva recuperi in mare, ed era saltato anche lui su una barchetta per vedere di persona di che si trattava.
Il recupero non fu facilissimo. Un cadavere ha la brutta abitudine di non collaborare con i soccorritori, ma dopo una mezz’oretta era stato trasportato sul molo e messo su una barella, mentre Palioudakis e il suo vice cercavano di convincere i curiosi a stare lontani. L’ambulanza dell’isola arrivò subito, e quella brutta scena fu nascosta ai turisti che erano ancora numerosi in quella settimana di fine estate. Solo il vecchio Kostas rimase a piangere sul molo, perché lui quel cadavere lo conosceva da quando erano bambini e correvano in giro per il paese a fare scherzi ai vecchietti. Quelli che camminavano lentamente e a volte si appoggiavano ad un bastone, proprio come faceva anche Kostas, ormai.
L’aria era immobile e umidiccia. Nella casa accanto alla stazione di polizia, una giovane mamma stava cercando di fare addormentare il suo bambino cantando una ninna nanna dolce e monotona, con una voce non perfettamente intonata ma gradevole. Dietro la finestra spalancata - non c’era aria condizionata lì dentro - il commissario Charalampos era incazzato nero, perché quel cadavere era il più scomodo che gli potesse capitare.
“Perché lo chiamano l’armatore?” Gli chiese Matilda, la nuova arrivata dell’ufficio. Lei era dell’isola, ma troppo giovane per sapere tante cose.
“Ha cominciato come armatore, tanti anni fa. Adesso credo che abbia ancora una nave da crociera, ma in generale gli affari non li fa più con le navi. Cioè, non li faceva. Aveva investito in alberghi, televisioni, compagnie telefoniche. E dicono che avesse anche un numero enorme di appartamenti ad Atene e a Londra, palazzi interi.”
“Però non faceva vita da super ricco.”
“No, qui no. Questa è la sua isola, qui è nato e forse gli piaceva pensare di essere ancora come una volta. Lo conoscevo appena, ma secondo me non era una persona cattiva. Lui pagava stipendi decenti, e si vantava di non aver mai evaso le tasse e di non aver mai dovuto licenziare nessuno. Almeno questo è quello che diceva, non so se è proprio vero. Ma insomma, ci sono capitalisti peggiori di lui.”
“Quando arriva la scientifica da Atene?”
“Col traghetto di domani. Hanno detto che non avevano fondi per prendere l’elicottero. Tanto, il cadavere non scappa.”
“Bisogna dirlo al nipote.” Tutti a Tinos conoscevano il nipote dell’armatore. In realtà non era veramente il nipote: il nonno dell’armatore e il bisnonno del tennista erano fratelli, ma in Grecia il concetto di parentela è molto elastico. E poi il cognome era lo stesso: Zikos il vecchio armatore era molto contento di aiutare Zikos il giovane tennista nei suoi primi passi nei tornei di alto livello. Il ragazzo aveva stoffa, combatteva ogni match come se fosse una finale ed era riuscito a vincere diversi tornei minori. Ora passava l’estate nell’isola con il suo allenatore per prepararsi all’ingresso nel grande slam, che l’avrebbe portato a giocare su campi mitici come Wimbledon, Flushing Meadows, Roland Garros. Chissà…
“Forse ci potresti andare tu, ad avvertire il giovane Zikos. Probabilmente la notizia gli è già arrivata, ma non ne sono sicuro, perché magari nessuno ha avuto il coraggio di dirglielo. Vai in uniforme, e fatti accompagnare da Makris, meglio fare una comunicazione in forma ufficiale. Poi vedi anche un po’ come reagisce. Non sappiamo ancora se è un incidente oppure no, e dobbiamo fare il nostro lavoro. Magari scopriamo che lui è l’erede universale.”
Matilda si preparò ad una serata di lavoro straordinario, ovviamente non pagato. Ma tanto, in quella notte afosa, meglio andare in giro per l’isola che restare sola nella sua stanzetta troppo calda.
Trovò il giovane Zikos nella palestra del club. Si era allenato sul campo fino al tramonto, e prima di chiudere la giornata stava provando la spaccata. Sembrava un po’ strano: Matilda immaginava la spaccata come un esercizio per ballerine o ginnaste, e invece lì c’era quel giovanottone grosso e muscoloso che stirava i tendini coscienziosamente come se dovesse prepararsi a ballare il Lago dei Cigni, mentre le sue racchette Babolat erano metodicamente allineate contro il muro.
No, non aveva ancora saputo della disgrazia. Non era possibile, suo zio era un subacqueo esperto, pescava in quelle acque da quando era bambino, gli aveva anche fatto scoprire una grotta sommersa che conosceva solo lui. Sì, era piuttosto sconvolto. Sì, gli dispiaceva molto, suo zio lo aveva aiutato tantissimo e gli era molto grato. E poi ebbe una specie di collasso, come se all’improvviso si fosse ricordato qualcosa di importante: si buttò a sedere su una panca e disse, coprendosi gli occhi: “Dio mio, e adesso come faccio per l’iscrizione? Chi mi paga l’iscrizione per New York?”
Forse era davvero sconvolto, oppure era un discreto attore.
Matilda tornò in ufficio e trovò il capo ancora al telefono.
“Sto cercando di convincere quelli di Atene a venire stasera. Non sono autorizzati a prendere l’elicottero, però almeno potrebbero affittare un motoscafo da Rafina. Ma no, ci vogliono diecimila firme per spendere trecento euro. E intanto qui abbiamo un omicidio.”
“Non è annegato?”
“No, il dottor Athanasopoulos ha dato un’occhiata. Ci ha tenuto a dire che lui non è un medico legale, però la botta sulla testa è evidente, e sembra proprio quella la causa di morte.”
“Magari le onde lo hanno sbattuto su una roccia mentre era in acqua.”
“Con questo tempo?” In effetti da una settimana non tirava un alito di vento, cosa rara nelle Cicladi, e il mare era una tavola. Era difficile pensare che un nuotatore esperto si fosse ammazzato dando una capocciata ad un sasso in quelle condizioni.
“Dice Athanasopoulos che forse potrebbe aver avuto un ictus o qualcosa di simile, ed essersi ferito con un movimento incontrollato, ma è molto improbabile.”
“Quanto improbabile?”
“Mi ha detto testualmente: io non ci scommetterei nemmeno un euro. Comunque, appena faranno l’autopsia avremo la conferma. All’ospedale sono pronti, ci serve solo il medico legale da Atene.”
Non c’era più niente da fare. Matilda andò a casa, si cambiò e poi tornò al porto, a mangiare un gelato con Dimitris, chiacchierando di tutto tranne che del vecchio Zikos.
La tranquillità durò poco: dopo nemmeno mezz’ora avevano già ricominciato a discutere, e sempre per gli stessi motivi. Dimitris voleva partire, andare all’estero a trovare un lavoro decente, mentre Matilda non ne voleva nemmeno sentirne parlare. Lei il lavoro decente ce l’aveva, era funzionaria di polizia. Certo, guadagnava poco, ma era uno stipendio sicuro e le piaceva, perché aveva l’impressione di essere utile alle persone intorno a lei. Che cosa avrebbe fatto ad Amburgo o a Lione? Avrebbe dovuto ricominciare da zero e non ne aveva voglia, non dopo tutta la fatica fatta per vincere un concorso. Però quello stipendio, anche aggiungendo quel poco che guadagnava Dimitris lavorando al porto, non bastava per metter su casa e formare una famiglia.
Per non litigare anche quella sera, Matilda decise di tornarsene a casa, facendo il giro lungo sul molo senza nessuna ragione, solo per smaltire la rabbia. Rabbia di un mondo dove se non sei nata nel posto giusto tutto diventa difficile, anche metter su una famiglia. Certo, forse non si doveva lamentare – le famigliole siriane che erano ospitate sull’isola avevano avuto meno fortuna di lei, e c’era tanta gente che avrebbe pagato tutto quello che aveva per scappare dalla guerra o da situazioni impossibili. Lei invece aveva un passaporto, una laurea, parlava tre lingue e poteva prendere un aereo quando voleva. Ma non era facile decidere di farlo. Ed era profondamente ingiusto dover scegliere se vivere nel posto dove sei nato o andare via solo perché ti vuoi sposare.
Mentre camminava lungo il molo, guardando la fila di barche, le venne in mente che anche la barca di Zikos doveva essere ormeggiata lì. Chissà se il capo aveva mandato qualcuno a controllare? Sapeva che la barca aveva il nome della moglie di Zikos, che però in quel momento non ricordava. Era qualcosa di semplice ma elegante, un nome classico… Eleni, ecco come si chiamava. Si fermò e cercò tra le barche una “Eleni”. Doveva essere un veliero non molto grande, se ben ricordava. In passato Zikos aveva posseduto uno yacht enorme, e ad ogni estate arrivava sull’isola su quel bestione con il ponte tutto coperto di marmo bianco e nero, grande come un traghetto. Dopo qualche anno l’aveva venduto perché aveva detto che non si divertiva, gli sembrava un ufficio pieno di computer. Come tutti gli isolani era rimasto un pescatore, e sotto i piedi voleva sentire una barca, non pavimenti di marmo, perciò aveva venduto l’incrociatore da nababbo e comprato la piccola Eleni.
Eccola lì, la penultima della fila. Certo, a guardarla da vicino tanto piccola non era. Matilda non era esperta e non avrebbe saputo dire quanto valeva; non era grande come il traghetto con i pavimenti da cattedrale, ma certamente non era una barca alla portata di molti. Però aveva qualcosa di particolare: non c’era nulla di lussuoso, niente grandi vetrate e divani in pelle come su altre barche ormeggiate a quel molo. Matilda non si era mai interessata alla nautica, ma sapeva bene che la maggior parte delle barche che si vedono nelle Cicladi sono fatte più per stare all’ancora, cenare sul ponte di poppa e permettere all’armatore di pavoneggiarsi con i suoi amici, che per navigare; invece quella era una vera barca da regata, snella, con i fianchi alti e due alberi altissimi, sembrava pronta a volare sulle onde in una gara d’altura. Perfino la passerella era stretta, buona per chi sul mare ci sapeva stare ma non per ospiti di riguardo, magari imbranati e sovrappeso. In quel momento era appena sollevata.
Matilda chiamò: “C’è nessuno? C’è nessuno a bordo?” Dopo un attimo si accorse di un puntino rosso che diventava più brillante, e poi volava a mare dalla prua. Il marinaio stava fumando una sigaretta e l’aveva buttata in acqua, aggiungendo un filtro pieno di catrame alla dieta dei pesci di quella zona. Salvare il pianeta è un lavoro per donne, perché gli uomini non ci riusciranno mai.
Il marinaio venne lentamente verso poppa. Zoppicava un po’, e Matilda lo conosceva di vista, ma non ricordava il suo nome.
“Buonasera. Sono Matilda del commissariato. Questa è la barca di Zikos, vero?”
“Sì, è vero. Ho visto mentre lo tiravano fuori dall’acqua oggi. Era una brava persona.”
“I miei colleghi sono già venuti a perquisire la barca?”
“Veramente non è venuto ancora nessuno.”
“Ah, no? Ma non c’è qualcosa del signor Zikos a bordo?”
“Certo! Ci sono i suoi vestiti sulla sua cuccetta. Credo che si sia immerso da qui, quando è morto. Però io non c’ero, mi aveva dato un giorno libero. Adesso ne avrò parecchi di giorni liberi, penso. Chissà che cosa succederà alla barca.”
Giusta osservazione. E chissà quante altre persone, appena saputa la notizia, si stavano preoccupando del loro posto di lavoro. Nelle aziende di Zikos si lavorava molto, però tutti avevano un contratto regolare, la cassa malattia e le ferie. Anche Dimitris aveva provato a farsi assumere, ma non l’avevano preso.
“I miei colleghi dovevano venire oggi, ma forse non hanno avuto tempo. Posso dare un’occhiata io?”
“Certo, venga. Ma è vero che non è stato un incidente?”
“Questo non lo posso dire. Stanno arrivando gli esperti della scientifica da Atene, ci diranno loro la causa della morte.”
Sottocoperta c’era un bagnetto e tre cabine. In una di queste, ben ordinati, erano stesi sul letto dei pantaloni leggeri e una polo. A terra c’erano dei mocassini da barca. Era qui che Zikos si era cambiato prima di entrare in acqua.
“Dove teneva il materiale da sub?”
“Nella seconda cabina, ma adesso non c’è niente. La sua muta è quella che aveva addosso quando l’hanno tirato fuori dall’acqua.”
Matilda spostò un cuscino, giusto per darsi un contegno, e notò che sul comodino c’erano un portafogli e un telefono. Sentì un brivido lungo la schiena. Nessuno aveva pensato di cercare il telefono di Zikos e portarlo al sicuro? Possibile che il suo capo fosse così disattento?
In fondo al corridoietto c’era una minuscola cucina, quasi tutta occupata da un congelatore. Matilda pensò che se c’era un congelatore magari c’era anche quello che le serviva in quel momento. Aprì l’unico cassetto sotto il fornello e vide una scatola di sacchetti per congelare nuovi. Stava per prenderli, ma pensò che doveva dare un minimo di giustificazione delle sue azioni al marinaio. Manolis, ecco come si chiamava. Manolis Kazantis, e il figlio aveva frequentato la stessa scuola di Matilda quando erano piccoli: se lo ricordava bene, perché era una piccola peste che faceva disperare tutte le maestre. Prese il telefono e fece finta di chiamare il commissariato.
“Pronto? Sì, sono per caso sulla barca di Zikos, con lo skipper. Ci sono degli effetti personali. Perché non siete ancora venuti a prenderli? Ah, per i vestiti deve venire la scientifica, ho capito. Ma il telefono e il portafogli posso prenderli io? Come dici? Solo se non ci sono problemi, altrimenti venite domani presto con il mandato? Ok, adesso chiedo.”
Matilda rimise il telefono in tasca. “Ho capito”, disse Manolis, senza nemmeno farla parlare. “Per me non c’è problema, puoi prendere quello che vuoi, tanto lo so che sei della polizia. E poi mio figlio diceva sempre che di te ci si può fidare.”
Matilda sorrise. “Dov’è adesso Yiannis? È dai tempi dell’università che non lo sento.”
“È andato in Inghilterra, insegna in una università. Ma dice che dopo il brexit non gli piace più stare lì, e l’anno prossimo si sposterà ad Amburgo. Gli hanno offerto una cattedra di biologia marina, una cosa importante. Diventerà professore come suo fratello.”
Un altro che era andato via. Forse Dimitris aveva ragione, dopo tutto. Matilda pensò che non era il momento di farsi troppe domande, prese due sacchetti e ci mise dentro telefono e portafogli facendo attenzione a non toccarli. Già stava facendo qualcosa di irregolare, meglio non attirarsi anche le ire dei colleghi della scientifica.
“Grazie, Manolis. Manda i miei saluti a Yiannis, spero di rivederlo qui qualche volta. Domani mattina verranno dei colleghi a fare un sopralluogo più completo. Tu sarai qui, vero?”
“Sì, dove vuoi che vada?”
“Ma per il tuo lavoro, adesso, come farai?”
Manolis fece una strana smorfia. “Io ho un contratto con la Greek Cruise, la società che gestisce le navi da crociera del signor Zikos. Magari mi imbarcheranno su una di quelle, oppure mi lasceranno qui a portare i turisti intorno all’isola. Sì, forse in fondo non avrò tanti giorni liberi. Comunque tra due anni andrò in pensione e tornerò a pescare solo per la mia famiglia, come faceva il signor Zikos.”
Matilda salutò e se ne tornò a casa, stanca. Dormì male, tra brutti sogni in cui un vecchio armatore annegava in una grotta sconosciuta mentre una giovane donna si ritrovava sola in un appartamento di una città straniera, senza nessuno intorno a lei che ricordasse il suo soprannome da bambina.
La mattina era calma, dolce e non troppo calda. Una brezza leggera aveva lavato via l’umidità dall’aria, e il mare luccicava pieno di colori.
Matilda doveva prendere servizio nel pomeriggio. Pensò per un attimo di passare in ufficio per depositare telefono e portafogli di Zikos, poi decise che se quelli di Atene non avevano fretta poteva prendersela comoda anche lei. Perciò se ne andò alla sua spiaggetta preferita e fece un rapido bagno condito da due chiacchiere con zia Kalli. Oddio, non era proprio sua zia, ma era un’amica di mamma, e la conosceva da quando era nata. Ricordava ancora quando passava le ore a insegnarle il suo vero nome “Kalliope Efstathia”, che era difficilissimo per una bambina piccola. Sarebbe rimasta zia Kalli per sempre.
Dopo le chiacchere, un po’ di spesa, poi Matilda tornò a casa per sistemare un paio di cose.
Lì le venne un’idea. Innanzitutto prese il telefono di Zikos e lo mise in carica, sempre maneggiandolo attraverso il sacchetto di plastica. Poi cercò di ricordare qualcosa della vita di Zikos. Tutti sapevano della moglie che adorava: mentre molti maschi greci, quando diventano ricchi, si pagano una bella ragazza giovane da esporre alle serate mondane, lui era rimasto sempre con Eleni, che aveva sposato quando era ancora giovane ma già abbastanza famoso. Com’era la storia? Era tornato dall’America e aveva cominciato ad investire. Sì, doveva essere così, ricordava di aver letto qualche articolo sulla vita di quell’isolano illustre. Articoli che raccontavano fatti di molti anni fa, ben prima che lei nascesse, ma tanto internet non dimentica niente. Si collegò al sito di Kathimerini con la password di suo padre - lei non poteva certo permettersi anche un abbonamento al giornale – e cominciò a cercare nell’archivio delle notizie.
Ci vollero pochi minuti: era un trafiletto, la foto di un articolo scritto quando le notizie puzzavano ancora di inchiostro, e i telefoni erano attaccati con un filo alla parete. La data era del diciotto settembre 1975, e l’immagine mostrava un giovane Zikos raggiante con la sua Eleni. L’articolo non diceva un granché, tranne il fatto che il matrimonio era stato rimandato di qualche anno perché la giovane coppia non voleva vivere in una dittatura. Già, quella era l’epoca dei colonnelli. Sembrava così lontana, eppure c’era ancora in giro tanta gente che se la ricordava bene.
A quel punto decise di correre il rischio. Prese il telefono di Zikos, e attraverso il foglio di plastica provò a sbloccarlo digitando il PIN. Uno otto zero nove sette cinque. Il telefono ci pensò un po’, poi sputò fuori “PIN errato. Aspetta 30 secondi prima di digitare di nuovo”.
Mmmmm, PIN errato? Un attimo, ma la data era quella? Matilda guardò di nuovo l’articolo del giornale, e lesse la frase più importante che le era sfuggita: “Ieri si sono celebrate a Tinos le nozze del giovane armatore…” giusto, l’articolo era del 18, ma le nozze il diciassette. Valeva la pena di fare un secondo tentativo, uno sette zero nove sette cinque.
Bingo: il telefono si attivò dando accesso a tutti i suoi segreti.
Matilda passò quasi un’ora a leggere tutto quello che c’era di interessante in quel telefono, e riuscì a farsi un’idea precisa di come erano andate le cose. Mancava un oggetto per mettere insieme tutti i pezzi, e forse sapeva bene dove poteva trovarlo. Tanto lì ci lavorava un vecchio amico di suo padre, le avrebbe certamente dato una mano. Saltò sullo scooter e si avviò verso la zona meno turistica dell’isola.
La puzza la avvisò con due curve di anticipo che era quasi arrivata.
Lasciò lo scooter vicino al cancello e bussò al campanello. Da qualche anno il governo aveva finalmente deciso che la spazzatura andava trattata come si deve, e aveva costruito un piccolo impianto dove si riciclava l’umido e si impacchettava tutto quello che doveva andare sulla terraferma per essere bruciato.
“Che ci fai tu qui?” chiese Sotirios quando la vide.
“Lavoro. Ci serve sapere se qualcuno ha buttato nella spazzatura una racchetta da tennis oggi.”
“È per il vecchio Zikos? Allora è vero che lo ha ammazzato il nipote?”
Sotirios era uno sveglio, niente da dire. Matilda si ricordò che suo padre diceva sempre che era un cervello fino.
“Non ti posso dire perché, Sotirios, ma devo trovare una racchetta da tennis.”
“Buon lavoro. Sono dodici contenitori quelli di oggi. Fai presto perché tra due ore la macchina li svuota.”
“Tu non puoi aiutarmi?”
“No, ho un sacco di altre cose da fare. Però posso darti un paio di guanti.”
Non erano guanti, erano una specie di tubi enormi in cui potevi infilare le mani e le braccia per rimestare nella spazzatura senza farti male. E meno male, perché c’era di tutto in quei cassonetti: pezzi di ferro arrugginito, vecchie lame, vernici, un topo morto… Matilda passò una buona mezz’ora a fare un lavoro pericoloso e schifoso, per non trovare niente.
Tornò da Sotirios con la faccia mogia per restituirgli i guantoni.
“Niente?”
“Niente.”
“Comunque pensa che se l’oggetto che cercate è stato veramente buttato nella spazzatura, potrebbe essere ancora in giro. Il camion svuota i cassonetti e la gente ricomincia subito a metterci roba dentro, lo sai come funziona. Quello che non è ancora qui potrebbe arrivare domani.”
Giusto, però domani avrebbe suggerito al capo di mandare Makris a fare questo lavoro. E poi forse era del tutto inutile: quello che cercava poteva essere finito in fondo al mare Egeo, in un qualsiasi punto dove il fondale era tanto profondo che non sarebbe mai stato ritrovato. Meglio mettersi l’anima in pace e dare il telefono a quelli della scientifica; ormai dovevano essere arrivati da Atene, anche viaggiando con tutta calma.
Saltò di nuovo sullo scooter e corse verso la stazione di polizia. Arrivò con tre minuti di anticipo rispetto al suo turno. Il commissario era nel suo ufficio.
“Ciao capo. Perché non hai mandato Makris e Polimenis alla barca di Zikos?”
“Perché avevano da fare, carina. Sono stati prima alla casa di Zikos, poi all’ufficio, hanno interrogato gli impiegati, hanno chiamato i figli che adesso stanno arrivando dal Canada e dalla Francia, hanno risposto ai giornalisti. Lo sai che non ci pagano gli straordinari, e quei due hanno lavorato almeno cinque ore più del dovuto, alla fine non me la sono sentita di dargli ancora un altro compito, e gli ho detto di andarsene a dormire.”
“Ah, va bene. Però per fortuna ci sono passata io alla barca.”
“Qualcosa di utile?”
“Direi di sì.” Matilda tirò fuori il telefono di Zikos dalla borsa.
“Il suo telefono?”
“Sì, e ho anche il pin per aprirlo.”
“Quindi chi ha ucciso Zikos è così scemo che non ha nemmeno pensato a far sparire il telefono. Che cosa hai trovato lì dentro? Per caso la prova che Zikos è stato ucciso da suo nipote?”
Matilda sorrise, e cominciò a raccontare la storia che aveva ricostruito dai messaggi sul telefono.
“La prova proprio no, ma tante cose interessanti. Con me il nipote ha fatto un po’ di teatro, ha finto di preoccuparsi per l’iscrizione ai prossimi tornei. Ma sa benissimo che non rischia niente, perché il vecchio aveva creato una fondazione per aiutare i giovani atleti greci, che continuerà le attività dopo la sua morte utilizzando una parte del suo patrimonio – ho trovato tutta la storia sull’archivio di Kathimerini. Invece, se il vecchio Zikos fosse ancora in vita, allora sì che ci sarebbero problemi per lui: perché il vecchio si era scocciato di questo nipote eterna promessa che non vince mai niente, voleva fargli cambiare manager, e gli aveva chiesto di guadagnarsi da vivere facendo il maestro di tennis nelle sue strutture turistiche, tra un torneo e l’altro. Secondo me è questo il vero motivo che l’ha fatto impazzire, se leggi i messaggi che si sono scambiati si capisce chiaramente. Quando è uscita fuori questa storia di fare il maestro di tennis non ci ha visto più. È andato sulla barca dello zio quando sapeva che il marinaio era a terra, ha discusso con lui e magari l’ha anche aiutato a mettersi la muta, perché il vecchio voleva andare a pescare di notte, come ha fatto tante volte. Era anziano, ma di queste acque conosceva ogni scoglio e ogni anfratto, per lui non c’erano rischi. Se non quello di un nipote che, appena lui si è girato, ha preso la racchetta da tennis e l’ha colpito sul cranio. Dobbiamo trovare l’arma, ma in questo telefono c’è già tutto quello che serve al giudice.”
Il capo scosse la testa. “No, Matilda, non è abbastanza. Possiamo dire che il nipote è un sospettato, magari anche arrestarlo, ma aver minacciato una persona con un messaggio non prova di aver compiuto un omicidio, e tu questo lo sai bene. Porta il telefono ai colleghi della scientifica. Sono arrivati da poco, perché non si sono nemmeno degnati di prendere il primo traghetto stamattina, e sono andati subito all’ospedale. Magari dall’autopsia ci sapranno dire l’ora del decesso, e magari il nipote non ha un alibi, ma anche se fosse così non basterebbe. Dobbiamo trovare l’arma del delitto, oppure farlo confessare.”
“Lo vuoi arrestare?”
Il capo si lisciò i baffi. Lo faceva sempre, anche se i baffi non li portava più da qualche anno – da quando la sua nipotina gli aveva detto che sembrava Zorro e faceva ridere.
“No, non lo voglio arrestare. Chiedo a Palioudakis di stare attento a che non prenda un traghetto, tanto lo conoscono tutti. Se lo vedo sul molo, gli chiedo formalmente di non lasciare l’isola. Altrimenti è meglio aspettare, magari fa una sciocchezza e ci dà lui la prova che manca. Oppure scopriamo che si è pentito delle litigate con lo zio, e che non è stato lui ad ucciderlo.”
“Ok. Io che faccio?”
“Un giro alla discarica l’hai già fatto?”
“Sì, nessuna racchetta nella spazzatura. Ma potrebbe essere finita a mare.”
“E in quel caso non la troveremo più. Tu annusa l’aria che tira: tieni un occhio sul nipote, cerca di capire che vita sta facendo in questi giorni. Informati sul funerale, chi lo sta organizzando e chi parteciperà. Abbiamo bisogno di più informazioni. Ma prima di muoverti parla con quelli della scientifica.”
I colleghi di Atene erano arrivati con un furgone pieno di attrezzature, e furono molto contenti di poter analizzare il telefono. Confermarono che le botte in testa – erano due – avevano causato la morte praticamente immediata e che sì, l’arma poteva essere una racchetta da tennis, ma anche un bastone o un tubo metallico o una stecca da biliardo – ipotesi bizzarra, considerando che la stecca da biliardo più vicina era probabilmente in qualche bar trendy di Atene. L’assassino aveva colpito dall’alto in basso, quindi era probabilmente più alto di Zikos, ma questo non diceva molto perché la vittima era un uomo piccolo e minuto. Il cadavere era stato gettato in acqua nel corso della serata, ma l’ora precisa era molto difficile da stabilire. Insomma, niente di veramente nuovo e niente di veramente utile per trovare il colpevole.
Matilda passò il resto della giornata a fare cose completamente inutili: parlò con varie persone al circolo del tennis, e andò a vedere come si allenava il famoso nipote. Si mise in un angolino vicino agli spogliatoi da cui poteva vedere il campo restando in ombra, e guardò un bel po’ di scambi. Certo, era bravo: si muoveva con una agilità insospettata per un atleta così alto, e intercettava delle palle lontanissime senza sforzo apparente. Però chiaramente non era in una delle sue migliori giornate: faceva molti errori banali, sbagliava il servizio troppo spesso, si muoveva in ritardo sulla palla. Ma che cosa ci si può aspettare da uno che ha appena perso un caro parente?
Tornò in ufficio con il suo quadernetto pieno di appunti sugli spostamenti del famoso nipote, i nomi di chi l’aveva visto al club e a che ora. Certo, avrebbe avuto tutto il tempo di andare al porto ed ammazzare lo zio prima di tornare a cena – lui mangiava al club perché il suo allenatore gli controllava la dieta. Però queste non erano prove.
Quella sera Matilda era nervosa, e decise di non tornare al porto. Mandò un messaggio a Dimitris dicendo che era stanca e voleva andare a casa, ma solo perché non voleva rovinare un’altra serata con un litigio. Però in compenso dormì benissimo, senza sognare omicidi, assassini o altre cose brutte.
La mattina si svegliò con il meltemi.
È difficile spiegare cos’è il meltemi se non l’hai mai ascoltato. È come il respiro di un gigante, un soffio che viene da lontano, dalle montagne aride dell’Anatolia e vola sul Bosforo e su Costantinopoli – perché questo è il vero nome di Istanbul per tutti i greci – poi si allunga sul mare e ne cambia i colori, lo riempie di creste bianche e di onde scure, pronte ad ingoiare le barche troppo piccole per sfidare quel vento potente. È qualcosa che non finisce mai, che ti fa sentire piccolo piccolo come una formichina, aggrappata alla terra per non farsi portare via. È un rumore che non ti entra solo nelle orecchie, ma ti fa vibrare tutto il corpo come se non potessi mai più trovare la pace e la tranquillità di una giornata calma. Non è un vento, è il respiro di Dio che ti ricorda la tua piccolezza davanti al creato.
Per Matilda il meltemi non era una novità, e anzi lei ne apprezzava un aspetto importante: con il vento sparivano le zanzare, incapaci di volare in quelle condizioni, si abbassava la temperatura e si poteva dormire tranquillamente – bastava non far caso al rumore, alle persiane che sbattevano nelle case vicine, agli ingannevoli momenti di silenzio che ti facevano pensare che tutto fosse finito. La mattina il cielo era limpido e di un azzurro infinito, con un milione di gradazioni diverse da un lato all’altro dell’orizzonte. Però il mare era tutto bianco: non era certamente la giornata adatta per andare sulla spiaggia.
Poco male, perché Matilda doveva fare un po’ di spesa e sistemare alcune cose a casa. Scese di nuovo al porto, comprò qualcosa al forno e poi passò al supermercato. Stava tornando a casa con la sua spesa – poca roba, una spesa da single – quando vide zia Kalli che parlava animatamente con qualcuno. Si avviò a passo svelto verso casa, e vide con preoccupazione che la zia si avvicinava, trascinando per il braccio l’anziano signore che sembrava piuttosto riluttante.
“Ciao zia Kalli. Scusami, ma devo portare queste buste a casa e correre al lavoro, sono già un po’ in ritardo.”
“Matilda, questo signore deve dirti qualcosa di importante.”
“Sì, ma non ora, devo andare al lavoro.”
“Non hai capito, riguarda proprio il tuo lavoro. Ha trovato una borsa.”
“Zia, non me ne frega niente se ha trovato una borsetta rubata. È morto l’uomo più importante dell’isola e abbiamo tutti molto da fare.”
La zia non era donna da lasciarsi intimidire. Dette uno spintone poco gentile al signore anziano, e gli disse soltanto: “Parla!”
Seguirono cinque minuti piuttosto confusi. Il vecchio Kostas era un semialcolizzato che gironzolava sempre intorno al porto, non sembrava una persona che potesse dare informazioni utili, e soprattutto aveva un’avversione innata per la polizia e per ogni forma di ordine costituito. Non aveva torto, visto che i colleghi di Matilda non perdevano occasione per cacciarlo via dai suoi posticini preferiti ogni volta che rischiava di dare fastidio a qualcuno. Matilda si rese conto con tristezza che quell’uomo era molto solo.
Zia Kalli ad un certo punto lo zittì, e spiegò a Matilda il nocciolo della questione: “Kostas si vergogna, perché non vuole che si sappia che lui qualche volta rovista nella spazzatura. Ma mica sempre, solo qualche volta. Però questa volta ha trovato una cosa che potrebbe essere importante, e te la vuole dare, ma non si deve sapere dove l’ha trovata.”
Matilda tirò fuori il suo miglior sorriso e disse: “Ma non c’è problema, diremo che l’ha trovata mentre buttava la sua, di spazzatura. Mi pare normale, no?”
Kostas sembrò calmarsi un poco, ma non del tutto. “E poi, che cosa ha trovato di così importante?”
“Una borsa da tennis con una racchetta. La borsa è firmata Zikos.”
A questo punto Matilda tirò fuori il telefono e chiamò in ufficio. “Ilias, per favore, avverti il capo che arriverò un po’ tardi. Sto parlando con una persona per una cosa che riguarda… sì, appunto. Appena finisco arrivo.” Poi si girò e disse: “Che ne direste di prendere qualcosa al bar?”
Si sedettero al tavolino più esterno, che un muretto riparava dal vento e dalla curiosità degli altri pochi clienti. A Kostas non sembrò vero che qualcuno gli offrisse un bicchiere, chiese uno Tzipuro. Matilda si rese conto che puzzava di alcool già prima di cominciare a bere, ma il liquore gli sciolse la lingua definitivamente.
“Io conoscevo Georgios.”
“Chi è Georgios?”
“Zikos, l’armatore. Aveva un anno meno di me, abitava dietro casa di mia zia, da bambini giocavamo insieme. Lui mi ha aiutato, di nascosto dalla moglie quando era viva. Perché la moglie diceva che sono un ubriacone, e che lui mi doveva lasciar perdere. Invece lui mi dava qualcosa, mi trovava qualche lavoretto, mi ha anche regalato un paio di scarpe. La pensione non basta, io ho la casa mia, ma devo pagare le bollette, e non mi rimane niente. Perciò certe volte guardo nella spazzatura…”
“Non ti rimane niente perché i tuoi soldi te li bevi tutti, ecco perché! Stai sempre dentro un bar, invece a casa tua hai le galline e spazio per l’orto. Quando c’era tua moglie quell’orto era un giardino delle delizie: pieno di pomodori, melanzane, cipolle. Ci potresti mangiare da re, con quell’orto. Invece passi le giornate a bere, per forza la pensione non ti basta.” Zia Kalli non era un tipo tenero.
“È vero” disse lui “ma che ci sto a fare a casa, ora che sono solo?” E si fermò per un attimo, guardando fisso la punta dei suoi piedi. Matilda provò una pena infinita per quell’uomo che non aveva più nessuno per cui vivere.
Rimasero a parlare al bar per più di mezz’ora, il tempo necessario per bere altri due bicchieri di Tzipuro. Alla fine Kostas aveva gli occhi lucidi, non si sa se per l’emozione o l’alcool. Matilda lo ringraziò, gli disse che i poliziotti adesso gli dovevano un favore e non l’avrebbero più cacciato, però lui doveva essere bravo e non mettersi a dormire per strada come un barbone. Perché lui la casa ce l’aveva, e se la teneva pulita e risistemava l’orto lei sarebbe andata a trovarlo, e gli avrebbe portato una bottiglia intera di Tzipuro.
Matilda andò via vergognandosi per quello che aveva detto. Arrivò in ufficio portando la borsa come un trofeo, e andò dritta nell’ufficio del capo.
Dopo tre ore la scientifica aveva analizzato la borsa, trovando solo due peletti che sembravano strappati dal braccio di un uomo, e la racchetta, che aveva due piccole ammaccature su un bordo. Qualcuno l’aveva lavata e non c’erano residui organici, ma le deformazioni potevano essere compatibili con le ferite che Zikos aveva sul cranio. Non era un risultato sicuro al cento per cento, ma probabilmente avevano trovato l’arma del delitto. Purtroppo non c’erano molte impronte utilizzabili. Alcune erano del vecchio Kostas, che per qualche motivo era schedato negli archivi della polizia, e poi ce n’erano almeno altre due del tutto sconosciute.
Charalampos decise che era arrivato il momento per portare il tennista in commissariato.
Il giovane Zikos arrivò senza protestare. Era in tenuta sportiva, la macchina della polizia era arrivata mentre aveva appena finito il riscaldamento in palestra e stava per andare sul campo. Aveva l’aria mogia di chi si aspettava quella convocazione e si preparava a passare un brutto quarto d’ora.
“Dobbiamo farle alcune domande” disse Charalampos. Lui annuì, senza parlare.
“Ma prima, vorrei che mi spiegasse che cosa è questa” e il capo posò sulla scrivania, con un gesto piuttosto teatrale, la borsa gialla e nera, con la scritta “Babolat for Zikos” sul fodero della racchetta.
“Questo è uno dei miei kit sponsorizzati che fa la Babolat.”
“Certo, una delle sue racchette. Sospettiamo che questa in particolare sia l’oggetto con cui ha ucciso suo ‘zio’, colpendolo due volte sulla testa. Le deformazioni sul bordo della racchetta corrispondono alle ferite”.
“No, no” disse Zikos, gesticolando con entrambe le mani “forse non è chiaro: io non uso quelle racchette.”
“Ah, davvero? Ci spieghi, allora.”
“Le racchette che fa la Babolat per me sono in carbonio, sono eccellenti. Però per la sponsorizzazione ne hanno fatto una in alluminio, con gli stessi colori di quella che mi forniscono per i tornei, ma molto più economica. È quella che vendono nei negozi di sport, con la borsa abbinata. Mio zio ha discusso la sponsorizzazione, io avrei voluto mettere il mio nome su una racchetta di alto livello, ma non è stato possibile. Quelle le vendono con il nome di chi è nella top ten, non il mio. E poi, mi scusi, posso vederla la racchetta?”
Charalampos si infilò un guanto, prese la racchetta e la posò sul tavolo.
“Eccola qui. Non può toccarla.”
“Non c’è bisogno. Si vede solo a guardarla, questa ha un manico molto piccolo, credo che sia la misura per i ragazzini. Io ho le mani grandi e uso un manico più grosso, potete andare al club e misurare le racchette che uso di solito. Questa qui è tutta un’altra cosa, ha solo lo stesso marchio.”
Charalampos guardò Eleni e si lisciò i baffi che non aveva più. Eleni decise di fare una domanda:
“Sulla racchetta abbiamo trovato delle impronte. Quindi lei è convinto che quelle impronte non corrispondano alle sue.”
“Io quella racchetta non l’ho mai toccata. E io non ho ammazzato mio zio. Qualche volta avrei quasi voluto farlo, abbiamo litigato tante volte, ma in fondo gli volevo bene. Non sono stato io.”
E aveva ragione. Le impronte sulla racchetta e sulla borsa erano poche e incomplete, ma i due colleghi della scientifica furono categorici: certamente non erano quelle del giovane Zikos. Avevano trovato l’arma del delitto, ma non l’assassino.
Quella sera andarono a prendere un gelato. Il vento era calato, ridotto ad una brezza tiepida, e sulla spiaggia si stava bene.
Matilda si sentiva nervosa, mentre Dimitris sembrava più interessato allo sviluppo del caso Zikos che alla sua fidanzata. Le fece un sacco di domande su quello che era successo, sulle prove, su quello che avevano detto le varie persone. Matilda si cominciò ad innervosire ancora di più, perché certamente non poteva raccontare i dettagli dell’indagine, ma sull’isola le notizie circolano, perciò Dimitris sapeva già perfettamente tutto quello che era successo. E lei si sentiva un’idiota. Alla fine, però, Dimitris ebbe un’idea buona:
“Avete controllato chi ha comprato quella racchetta?”
“Non ancora. Il capo ha chiesto aiuto ai colleghi di Atene. Certamente non l’hanno comprata qui sull’isola, non possiamo cercare in tutti i negozi della Grecia.”
“Secondo me l’ha comprata da Decathlon.”
“E allora?”
“Tassos.”
“Tassos?”
“Sì, ti sei dimenticata? Lavora ai sistemi informativi di Decathlon. Secondo me può controllare in due minuti.” Prese il telefono dalla tasca e fece il numero del suo vecchio compagno di scuola. Anche se la scuola Tassos non l’aveva frequentata molto, a dire il vero, però poi all’università si era messo a studiare e dopo aveva trovato subito lavoro.
“Ciao Tassos, come stai? Stanco? Dai, non ti lamentare sempre del lavoro, con quello che ti pagano. Senti, ti devo chiedere un favore…”
Ci vollero pochi minuti per convincerlo. In fondo tutti gli informatici sognano di fare un giorno gli hacker come nei film americani, dove il loro lavoro sembra molto più affascinante che nella realtà. E lui non doveva inventarsi niente di complicato: soltanto collegarsi ai sistemi del suo ufficio per trovare una bolletta in un database.
Dopo un quarto d’ora mandò un messaggio a Dimitris con la lista delle vendite di kit “Babolat for Zikos” nei negozi Decathlon. Uno dei kit era stato acquistato nel negozio di Spata e pagato con una carta di credito intestata a Manolis Kazantis.
A Matilda venne da pensare che fare la poliziotta era diventato un mestiere troppo facile. Dette un rapido bacetto a Dimitris, che chiaramente si aspettava qualche segno di ringraziamento più sostanzioso da parte della sua ragazza, e lo abbandonò nella serata tiepida per correre a casa a prendere appunti. Doveva preparare una nota completa e precisa, come piaceva al suo capo.
Il giorno dopo, Manolis Kazantis fu convocato al commissariato in tarda mattinata. Il meltemi aveva ripreso a soffiare forte, e tutta la zona vicino al porto era piena dei mille rumori delle barche: cime che vibravano, drizze che sbattevano contro gli alberi, cerniere cigolanti, lo sciacquio dei tender, i tonfi degli oggetti che si spostavano sui ponti. E su tutto questo un soffio infinito, a portare l’aria secca e calda dalle montagne dall’Anatolia fino alle onde dell’Egeo.
Manolis arrivò ostentando un’aria tranquilla, dopo aver preso un caffè al bar dicendo a tutti che la polizia si aspettava da lui i dettagli necessari per risolvere il caso.
Quando si sedette davanti a Charalampos perse un po’ della sua sicurezza, ma quella reazione non voleva dire niente: trovarsi in un commissariato è sempre una esperienza un po’ particolare, anche per la persona più onesta al mondo.
Il capo fu bravo: fece ripetere a Manolis le cose che grosso modo lui aveva già detto a Matilda, interrompendolo di tanto in tanto per chiedergli di chiarire qualche dettaglio come se fosse molto importante per le indagini, e ringraziandolo per la precisione nelle riposte. Manolis si stava visibilmente rilassando e cominciava a sorridere, quando Charalampos infilò la mano sotto la scrivania e tirò fuori la borsa con la racchetta.
“Che cosa è?”
“Questa è l’oggetto con cui il vecchio Zikos è stato ucciso.”
“Allora è vero che è stato il nipote!” disse Manolis, ma era diventato un po’ pallido.
“No, non è stato il nipote. Vede, abbiamo avuto fortuna, non lo nego. La racchetta è stata pulita accuratamente, ma il danno dovuto all’impatto sul cranio della vittima è visibile, e sono rimaste due impronte ben leggibili. Inoltre, aprendo la borsa, l’assassino ha lasciato un peletto sul velcro. Sì, lo ammetto, questo è stato un vero colpo di fortuna, perché senza questa prova non saremmo mai riusciti a chiudere il caso.”
Charalampos fece una pausa ben studiata, poi continuò:
“Quindi per me ora il caso è risolto. Le chiederemo un campione di DNA, e io sono sicuro che corrisponderà al DNA che abbiamo trovato sulla borsa. Come prova è molto convincente per qualsiasi giudice, non credo che ci saranno problemi per l’accusa. Però una cosa non l’ho capita: perché? Perché ha ammazzato il suo datore di lavoro, che cosa ci guadagna?”
Matilda non aveva mai visto un uomo piangere così. Forse in Grecia non si usa, forse gli uomini credono che sia un loro dovere mostrarsi sempre forti e che mettersi a frignare sia una cosa da donne. Invece Manolis cominciò a piangere, con le lacrime che colavano dalle sue guance giù sulla camicia, e gli occhi umidi che guardavano in basso. E raccontò una storia lunga, la storia di un uomo che aveva cercato di costruire una vita onesta ma poi non ci era riuscito, poi aveva avuto qualche problema quando era stato a Tessalonica ed era finito in prigione, e si era vergognato tanto per i suoi figli. E allora era tornato a casa, e la moglie gli aveva permesso di vivere con lui, ma non era più sua moglie ormai, e i figli erano già grandi, erano andati via. E ormai quella donna non c’era più, ormai era rimasto solo, e voleva almeno una volta essere all’altezza dei suoi figli, fare in modo che non si vergognassero di lui quando tornavano nell’isola. Voleva mettere su qualcosa di suo, avviare la sua piccola attività, e gli aveva chiesto i soldi, a quel ricco sfondato che aveva tutto e poteva comprare tutto quello che voleva, ma lui gli aveva detto no, gli aveva detto che i soldi si guadagnano, non cadono dal cielo. Gli aveva messo davanti tutti i suoi fallimenti: voleva aiutarlo, sì, così aveva detto, che voleva aiutarlo, ma non poteva. “Se tu avessi preso almeno la patente nautica, se non fossi stato un buono a nulla, ti avrei affidato una barca, e invece tu ti fai chiamare skipper ma non sai nemmeno tenere una rotta”, così gli aveva detto. Ma Manolis non era mai stato capace di fare un esame, non ce la faceva, lui che aveva i figli professori, a tornare sui banchi e a studiare. E Zikos non voleva ascoltarlo, diceva che lui aiutava solo chi si dava da fare, non i fannulloni. E allora Manolis non aveva capito più niente, aveva preso la borsa che aveva comprato per suo nipote - un regalo per il bambino più bravo e più bello del mondo - e l’aveva colpito sulla testa, una volta, due volte. E poi aveva cominciato a tremare, perché aveva capito che i suoi figli avevano un padre che non era solo un fallito, ma anche un assassino, e che si sarebbero vergognati per sempre di lui. E suo nipote, forse, non l’avrebbe più visto. E allora, e allora…
A quel punto Matilda non riuscì più ad ascoltare, e cominciò a ripensare a Yiannis, che aveva conosciuto quando avevano sei anni e che aveva visto crescere. Un ragazzone grande e grosso come il suo papà, con un bel sorriso e tanti riccioli in testa. Non lo vedeva da dieci anni, chissà se quei riccioli li aveva ancora o se stava diventando quasi calvo come il padre. Chissà che cosa avrebbe provato ascoltando questa storia – forse avrebbe abbandonato suo padre, oppure avrebbe pianto abbracciandolo. E pensò anche un sacco di cose confuse sugli assassini che non sono tutti criminali incalliti, su come rovinarsi una vita e come invece costruirsi una vita degna di essere vissuta. Era quasi un sogno, pieno di immagini che si rincorrevano nella sua testa, e ad un certo punto sentì che il capo la stava chiamando.
“Matilda, chiedi agli agenti di accompagnare il signor Kazantis a casa. La mia valutazione è che non ci sia pericolo di fuga, quindi gli notificheremo le accuse e gli permetteremo di restare a casa fino a quando dovrà comparire davanti al giudice, probabilmente tra un paio di giorni. Naturalmente non può lasciare l’isola e non potrà salire sulla barca della vittima, che dobbiamo sequestrare.”
“Va bene, ora provvedo.”
In realtà non c’era bisogno di fare niente. Ilias aveva ascoltato tutto dalla stanza a fianco, entrò silenzioso e prese in custodia Manolis, che sembrava invecchiato all’improvviso. Matilda uscì con lui per assicurarsi che tutto fosse chiaro, poi rientrò nell’ufficio del capo, che si stava lisciando i baffi virtuali mentre sorrideva.
“Mi dispiace per Zikos. Era una brava persona, uno che aveva avuto successo senza diventare cattivo. E mi dispiace per questo povero uomo che l’ha ammazzato. Comunque tu sei sprecata qui, te l’ho sempre detto. Vatti a mettere l’uniforme e preparati un discorsetto: sarai tu a spiegare al giudice la storia, non io. E poi faremo una videoconferenza con l’associazione giornalisti di Atene, perché quelli sono troppo pigri anche per prendere un traghetto e venire qui. Mi raccomando, solo fatti: noi non giudichiamo e non interpretiamo, quello è il lavoro dei giudici.”
Il capo si tolse gli occhiali da lettura e si massaggiò le tempie. Il sorriso non riusciva a nascondere la stanchezza.
“Ma sei andato a casa, stanotte?” chiese Matilda.
“Un paio d’ore. Ho riposato un po’, poi ho fatto una doccia e sono tornato in ufficio. Maria non era molto contenta; spero di potermi considerare ancora un uomo sposato stasera.”
“Appena vedrà il tuo nome sui giornali ti perdonerà.” Non era tanto per dire: Matilda sapeva che Maria era molto fiera del ruolo sociale del marito, e avrebbe raccontato il caso a tutte le sue amiche per anni interi.
“No, non vedrà il mio nome, perché dirò che il caso lo hai risolto tu.” Tamburellò con le dita sul tavolo per un pochino, poi disse: “Matilda, è da qualche giorno che ci penso: perché non fai la domanda per Europol? Mi è arrivata un’altra richiesta, cercano giovani funzionari di polizia dai vari paesi europei. Contratto iniziale di tre anni, formalmente conservi il posto al ministero ma prendi uno stipendio molto più alto, e poi te lo possono rinnovare a tempo indeterminato. Tanto, qui basto anche io con quei due dormiglioni di Makris e Polimenis. Omicidi come questi non capitano spesso nell’isola, e per mettere sotto chiave qualche turista ubriaco non serve molto cervello. Lo sai che in generale io non conto un granché, ma per questa faccenda di Europol sono io che devo raccomandare un candidato. Se mi dici di sì, scriverò il tuo nome.”
Matilda rimase a bocca aperta. Che ne sapeva il capo della sua voglia di andare via? Aveva parlato con Dimitris? Certo, nell’isola tutti sapevano tutto, ma il capo non era uno che ascolta le chiacchiere. Forse aveva semplicemente capito che cosa era meglio per lei. Lui lo diceva sempre, che Matilda gli sembrava la figlia che non aveva mai avuto.
Forse era il caso di pensare veramente al suo futuro.
Il pomeriggio fu tutto un caos, tra i colleghi della scientifica, la convalida del fermo di Manolis Kazantis, la videochiamata con la stampa e le carte da far firmare al giudice. La notizia uscì sui telegiornali della sera, sia su ERT che su SKAI. Poi arrivarono anche quelli di Euronews, che chiesero a Matilda un’intervista in inglese, per raccontare a tutto il mondo che anche nelle tranquille isole greche qualche volta ci scappa l’omicidio. Lei avrebbe voluto rispondere che non era una novità, succedeva almeno dai tempi di Omero, ma lasciò perdere perché non voleva fare la saputella.
Finalmente la giornata finì. Matilda uscì a piedi, lasciando lo scooter alla stazione di polizia – tanto era vicino a casa, e così era sicura che nessuno glielo avrebbe buttato a terra.
Il vento era calato all’improvviso. Succede così, con il meltemi: qualche giorno senza tregua, e poi tac – come se qualcuno avesse tolto la spina al ventilatore. O come se Dio si fosse stancato di soffiare. Il cielo luccicava di stelle, la luna ancora non si vedeva all’orizzonte.
Dimitri l’aspettava al solito posto. La barba sembrava ancora più grossa e nera del solito, o forse era un’impressione.
“Sei diventata famosa, bambina.”
Lei fece di sì con la testa, troppo stanca per parlare, e si lasciò abbracciare. L’aria non era più tanto tiepida, l’autunno si avvicinava ormai.
“Che cosa ne pensi dell’Olanda?”
“Olanda? Perché?”
“Europol. Potrei avere una possibilità.”
“Io in Olanda, con la mia laurea, un lavoro vero lo troverei sicuramente. Lì basta parlare inglese, e la disoccupazione in pratica non esiste.”
“Pensiamoci, ma non stasera.”
No, non quella sera. Lentamente, la luna sorgeva sul mare calmo, e l’estate ancora non voleva finire, quella sera a Tinos.